Enotria
2012-04-27 16:01
I ferraresi col vino non ci hanno mai saputo fare, l’unico risultato di quelli che hanno provato a vinificare è sempre stato una specie di vinello acetoso aspro ed imbevibile e chi, preso dall’amor proprio, ha voluto insistere bevendolo, è finito all’Oratorio di S. Anna, allora pomposamente chiamato l’Arciospedale, con gastriti, intossicazioni ed anche peggio.
Ben lo sapeva Ravlìn, che due volte all’anno andava a Rovereto e comprava il vino, quello buono, quello che i veneti sanno fare bene, anche se Panocia per la verità ci ciurlava e spesso tentava di dare dello sburiolo al posto del vino leggero da pasto o del Cliton tagliato col Merlot, per tirarlo su di gradi, per non farlo andare a male quando finiva l’inverno.
Ma Ravlìn, grande e grosso come un orso, con quel nasone rubizzo che gli aveva meritato il nome, ci sapeva ben fare, il vino lo conosceva bene e gli bastava assaggiarlo per capire se era annacquato o tagliato con vini da poco conto.
Era anche furbo e la sua osteria l’aveva aperta a "Cucmar", subito fuori le mura di Ferrara, per non pagare il Dazio, ma abbastanza vicino alla città perché la gente vi si recasse, chi in bici, chi col calessino, attratti dal buon vino e dal costo modesto, non gravato dai balzelli doganali.
Così, per il nostro Ravlìn, gli affari andavano a gonfie vele, per di più, l’euforia del nuovo secolo non si era attenuata e la gente ancora festeggiava l’inizio del 900 e lo scampato pericolo della annunciata fine del mondo, facendo i debiti scongiuri con allegre libagioni.
Ma, si sa, le cose troppo belle sono destinate a cambiare sempre in peggio ed il povero Ravlìn dovette andare all’Oratorio per farsi curare da certe nausee che non lo lasciavano in pace un solo momento.
La diagnosi fu presto fatta e la sentenza gli calò addosso come una mannaia: cirrosi epatica.
La prescrizione fu ancora peggiore: neppure una goccia di vino, dell’alcol non doveva più neppure sentir l’odore, figurarsi berlo !
E così le cose rapidamente peggiorarono, quel trabascano del Panocia approfittò subito della situazione e cominciò a tagliare i vini che gli forniva e così, pian piano, i clienti dell’osteria fuori le mura iniziarono a diminuire, preferendo fare due passi in più ed arrivare fino a Cona, pur di bere un vino genuino.
Credo di avervi già detto che Ravlìn era piuttosto scaltro, ma qui non sapeva proprio come risolvere la situazione: sua moglie, la buona Broca, donna minuta, ma con un testone pieno di capelli arruffati, era completamente astemia e non poteva di certo aiutarlo. Figli non ne avevano avuti, Dio aveva voluto così, e lui non si fidava di nessuno, per cui cercava disperatamente una possibile soluzione al suo grave problema.
E la soluzione arrivò all’improvviso: prima un ricordo confuso di sua moglie che sempre brontolava mentre lavava le tovaglie sporche di vino, poi l’immagine di quelle macchie, che lui in tanti anni di osteria aveva ben osservato, sempre diverse, tanto da divertirsi spesso a tirare ad indovinare il vino bevuto, dal colore e dal tipo di macchie rimaste sulle tovaglie.
Ed allora capì: forse non tutto era perduto, se il gusto non poteva più aiutarlo, si sarebbe avvalso della vista e delle tovaglie macchiate.
Come un forsennato iniziò le sue prove, la povera Broca lo guardava e non capiva, solo brontolava a vedere quello scempio di tovaglie macchiate apposta, ma tanto si sa, le donne devono brontolare, è nella loro natura.
Ma la Broca sapeva che suo marito non era uno da fare cose inutili, per cui lo lasciava fare, pur brontolando come una vaporiera.
Finalmente, con una manciata di ritagli di stoffa come campioni, Ravlìn si recò ancora una volta a Rovereto, dal Panocia, per ordinare i vini per la sua osteria.
Non voglio qui tediarvi con la descrizione della accesa discussione intercorsa, per la verità, dire accesa discussione è solo un eufemismo, ma alla fine i due erano entrambi rossi come peperoni ed il Panocia ne uscì anche un po’ acciaccato.
Ma poi, di nuovo, con il vino buono, anche i clienti ritornarono e il buon Ravlìn, quando era in vena ed aveva voglia di chiacchierare, raccontava ai suoi avventori del suo strano metodo per valutare il vino, a cui doveva affidarsi da quando la odiata cirrosi l’aveva colpito.
Ora, in quello stesso periodo di inizio secolo, si trovava da quelle parti, ospite del locale Orto Botanico di via Paradiso, un botanico che studiava i pigmenti delle piante, un tale chiamato dai ferraresi “zuéta”, storpiatura del suo cognome.
Figurarsi, un russo, mezzo italiano, e che si faceva chiamare Zviét Micail Semenovic: mai un ferrarese sarebbe riuscito a pronunciare un tale nome, molto meglio chiamarlo “zuéta”.
Questi era molto interessato alle storie di Ravlìn e già la sua testa cominciava a macinare: sarà l’esperienza raccontata dall’oste, sarà il buon vino che gli faceva girare le rotelline nel verso giusto, fatto sta che il nostro Zuéta cominciò a pensare che, se avesse usato lo stesso metodo, invece che con il vino, con i liquidi organici delle piante, forse sarebbe riuscito ad isolare finalmente la evanescente clorofilla dagli altri pigmenti vegetali che la mascheravano.
Fin qui il nostro racconto, il resto è storia nota: il nostro Micail, il 30 dicembre 1901, presentò al mondo accademico il suo metodo originale di analisi e ciò gli valse la cattedra presso la prestigiosa Università di Varsavia e, finalmente, nel 1906, battezzò ufficialmente “cromatografia” il metodo appreso dall’umile oste, durante il suo breve, ma istruttivo, soggiorno a Ferrara.
Glossario:
Broca: l’anfora che di fianco alla toletta contiene l’acqua per lavarsi o anche il chiodo corto a testa larga usato dai tappezzieri. Sopranome dato alla moglie dell’oste, sia per l’aspetto fisico, sia perché beve solo acqua.
Ciurlare: “ciurlar” indica il bere abbondantemente quando già si è sbronzi e malfermi sulle gambe, senza più alcun ritegno o controllo, di conseguenza, viene usato anche per indicare un facile raggiro, darla ad intendere ad un credulone, o appunto, come truffare un ubriaco .
Clinton: vino poco alcolico ed anticamente molto diffuso, ora non più commercializzato. Spesso veniva addizionato con altri vini per aumentarne il grado alcolico e ritardare così la sua probabile acidificazione nei mesi più caldi.
Cucmar e Cucmarin: rispettivamente Cocomaro di Cona e Cocomaro di Focomorto, due piccole località alle porte di Ferrara.
Oratorio di S. Anna: agli inizi del 900 era la sede dell’Arciospedale di Ferrara, poi successivamente trasferito in corso Giovecca.
Panocia: nome dialettale della pannocchia del granoturco, ma anche soprannome caricaturale riservato a molti veneti stabiliti nel ferrarese, per la loro mania di coltivare il mais.
Ravlìn: Sopranome dell’oste, storpiatura di “ravanel”, inteso come piccolo ravanello, con riferimento al naso rubizzo e, per contrasto, alla corporatura massiccia.
Sburiolo: “sburiol” è il vinello ottenuto rilavando le fecce dell’uva dopo la prima torchiatura. Detto anche di vino leggero e di poco conto, consentito per uso familiare, ma di cui è vietata la vendita.
Trabascano: inteso come imbroglione, truffatore, persona di cui non ci si deve fidare.
Zuéta: in dialetto la civetta, in questo caso per eufonia e storpiatura del cognome russo Zviét.
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